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Messa da Requiem • Mehta

  • Lorenzo Giovati
  • 11 minuti fa
  • Tempo di lettura: 5 min

Firenze, Teatro del Maggio. 18 Aprile 2025.

 

Come ogni anno nel periodo tra fine Aprile e inizio Giugno, a Firenze si tiene lo storico Festival del Maggio Musicale Fiorentino, il secondo festival di musica classica più antico del mondo, dopo Salisburgo. Quest'anno il caso ha voluto che una parte del festival coincidesse con la Settimana Santa e, forse per questo motivo, è stato deciso di celebrare il Venerdì Santo con una Messa da Requiem di Giuseppe Verdi, uno dei capolavori, a tema sacro, più spirituali e più intimi di tutti i tempi. A dirigerlo, ospite d'eccezione, è stato scelto il maestro Zubin Mehta, che per Firenze e per il Maggio ha fatto moltissimo, oltre a far crescere qualitativamente l'orchestra e a sostenere sempre il teatro di Firenze, addirittura con una cospicua donazione, che poi si è convertita in un auditorium che oggi porta il suo nome.


Il Requiem di Verdi è una partitura che Mehta conosce perfettamente e che ha eseguito molteplici volte, tanto che all'età di ottantotto anni l'ha diretta tutta completamente a memoria.

Il maestro Mehta ha offerto del Requiem verdiano una lettura di grande forza drammatica, capace di restituire l’intensità emotiva della partitura attraverso un controllo orchestrale saldissimo e una visione interpretativa coerente con il suo stile. La cifra espressiva della sua direzione è rimasta fedele a quella sonorità densa e compatta che ha sempre contraddistinto la sua lunga carriera: un suono pieno, talvolta quasi scultoreo, in cui ogni sezione dell’orchestra concorre a creare un impasto vibrante. Non si è trattato di una lettura filologica, né rarefatta, bensì di un’esecuzione dal respiro sinfonico, in cui l’energia non è stata dispersa, ma concentrata in masse sonore piene e compatte. Fin dall’introduzione, il gesto di Mehta ha delineato con autorevolezza un percorso sonoro che ha saputo costruire frasi ampie, scolpite, sostenute da un senso del tempo saldo, mai eccessivamente dilatato. Il lavoro sulle dinamiche si è espresso, non tanto nella ricerca del pianissimo estremizzato, che appartiene ad altre sensibilità direttoriali, quanto nel cesello dei forti e nel controllo della tensione. La ricerca del piano non era realizzata per sottrazione di volume, bensì per gioco di colori e per movimento delle dinamiche: una cifra ancora da grande direttore. Il Dies Irae, momento di massima deflagrazione sonora, è stato trattato con una precisione esemplare. I colpi di grancassa, forti, netti e taglienti, sono stati perfettamente integrati nel disegno complessivo. L’attacco, affidato alle trombe e ai timpani, ha avuto una violenza controllata, quasi misurata nella sua potenza. Un’irruzione apocalittica che, però, non ha mai perso il rigore. In particolare, ha colpito l’attenzione con cui Mehta ha valorizzato gli interventi del flauto e del piccolo, strumenti spesso relegati a ruoli secondari, ma che in questa lettura hanno assunto il valore di veri e propri vortici sonori. La direzione non si è avventurata nella ricerca di trasparenze estreme. Infatti, anche nei momenti più lirici, come il “Lacrymosa” o l’“Agnus Dei”, l’orchestra ha mantenuto un corpo solido, senza particolari dissolvenze, ma questo non ha impedito al maestro di ottenere passaggi di grande intensità espressiva, grazie a un controllo delle transizioni e del fraseggio. I tempi non erano, né troppo dilatati né eccessivamente serrati: ogni sezione aveva il tempo di respirare, senza però perdere tensione. Il Lux aeterna, ad esempio, è stato condotto con una sobrietà luminosa, evitando ogni sentimentalismo, ma lasciando comunque emergere la dolcezza delle linee vocali in dialogo con un’orchestra mai invadente. In sintesi, l’interpretazione del maestro Mehta ha brillato per coerenza e autorità. Non si è trattato di una lettura votata all’effetto o all’originalità, ma di una testimonianza di quella grande scuola direttoriale che si fonda sul gesto chiaro, sull’equilibrio timbrico, sulla consapevolezza architettonica della forma. Un Requiem compatto, granitico, talvolta austero, ma sempre di grande respiro, percorso da una tensione interiore che non ha mai ceduto al compiacimento.


Un poco alterna è stata invece la componente vocale, con prove di livello diseguale tra i quattro solisti, capaci comunque, nel complesso, di garantire una resa all’altezza dell’occasione.


Sul fronte femminile si è distinta Roberta Mantegna, che ha messo in campo una voce di bel timbro, omogenea nei registri centrali e salda nel materiale, dotata di buona proiezione. Il suo Libera me, pur affrontato con sicurezza e partecipazione, ha mostrato però qualche limite nella zona acuta, non tanto in termini di intonazione, quanto di agilità e di controllo del suono, che talvolta è risultato poco rifinito nelle emissioni più spinte. La linea vocale è sembrata comunque sempre curata e il fraseggio partecipe. La Mantegna ha saputo evitare facili patetismi, offrendo invece un’esecuzione asciutta, ma intensa.


Decisamente più convincente è stata la prova di Agnieszka Rehlis, mezzosoprano dalla voce calda e avvolgente, capace di unire colore e proiezione con un’ottima musicalità. L’inizio del suo intervento è sembrato leggermente titubante, forse a causa di un’emozione iniziale percepibile nella linea un poco trattenuta del Liber scriptus, ma la cantante ha presto ritrovato sicurezza, imponendosi con eleganza e solidità. Il timbro brunito, il buon volume e la chiarezza della dizione le hanno permesso di emergere anche nei passaggi più densi, e la sua interazione con il soprano nel Recordare si è distinta per equilibrio e per omogeneità timbrica.


Sul versante maschile, è stato senza dubbio Michele Pertusi a dominare la scena. Interprete di lunghissima esperienza in ambito verdiano, Pertusi ha offerto una lettura magistrale della sua parte, sorretta da una tecnica sicura, una dizione nitidissima e un fraseggio scolpito. Ogni parola era pesata e restituita con intensità e  con misura, ogni attacco gestito con la naturalezza che solo i grandi interpreti sanno garantire. Nel Confutatis come nel Mors stupebit, il basso ha saputo imporsi per autorità e per presenza vocale, tratteggiando un personaggio dolente, ma fiero. Unico neo della sua prestazione è stata l’esecuzione dell’Hostias, in cui una sua entrata anticipata rispetto al gesto direttoriale ha innescato un evidente disallineamento con l’orchestra, che ha faticato a ritrovare la coerenza ritmica.


Più interlocutoria, invece, è stata la prova del tenore Seokjong Baek, dotato di un materiale vocale interessante, timbrato e sonoro nei centri, ma ancora da affinare nelle zone di passaggio. La sua emissione risulta generosa, ma non sempre controllata, soprattutto nei momenti più esposti, come l’Ingemisco, dove si sono rilevate alcune imprecisioni d’intonazione e leggere incertezze nel sostegno della linea. Anche nell’Hostias la resa non è apparsa pienamente centrata. Nonostante ciò, Baek ha mostrato buone intenzioni interpretative.


Straordinarie sono infine state le masse del Maggio Musicale Fiorentino, protagoniste di una serata memorabile per coesione, qualità timbrica e intensità espressiva. L’orchestra ha offerto una prova di assoluto rilievo. La sezione degli archi ha brillato per omogeneità e per compattezza: i violini, in particolare, hanno saputo restituire le volute melodiche con eleganza e precisione, mentre le viole e i violoncelli hanno sostenuto l’impasto sonoro con profondità e morbidezza, senza mai appesantirlo. Strepitosa anche la prova dei fiati, tra cui si sono distinte con nettezza le trombe, limpide e squillanti. La cura dei dettagli, la chiarezza degli attacchi e la fluidità nei passaggi di registro tra le sezioni orchestrali hanno rivelato non solo una solida preparazione tecnica, ma anche un forte senso di unità sotto la guida del maestro Mehta.


Parimenti straordinario si è rivelato il Coro del Maggio Musicale Fiorentino, preparato con grande sensibilità e rigore dal maestro Lorenzo Fratini. La compagine corale ha saputo restituire l’intensità spirituale del Requiem con un equilibrio esemplare tra potenza e trasparenza. Impeccabile la dizione, perfetto il bilanciamento tra le voci, espressivo il fraseggio: ogni intervento del coro appariva scolpito. Nei Sanctus e nei Dies Irae il suono corale si è fatto monumentale, ma senza perdere lucidità e articolazione; nei passaggi più lirici, come l’Agnus Dei, ha saputo invece sfumare i colori fino a raggiungere un’intimità quasi sussurrata, di grande impatto emotivo.


In definitiva, questa esecuzione della Messa da Requiem al Maggio Musicale Fiorentino ha rappresentato un momento di straordinaria sintesi tra grande musica, altissima professionalità e profonda spiritualità. Una serata che ha reso omaggio al capolavoro verdiano con rispetto, intensità e una rara qualità d’insieme.

 


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