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Lorenzo Giovati

Mahler Sinfonia 9 • Nelsons

Salisburgo, Großes Festspielhaus. 10 Agosto 2024.

 

Dopo l’esecuzione dell’intero ciclo sinfonico bruckneriano, affidato alla sapiente bacchetta del maestro Christian Thielemann, i Wiener Philharmoniker hanno iniziato, da qualche tempo, l’esecuzione di un altro ciclo sinfonico, parimenti importante, come è quello di Gustav Mahler, curato musicalmente dal maestro Andris Nelsons. Dopo una memorabile quinta sinfonia e una quarta sinfonia parimenti magnifica, il maestro Nelson ha quest’anno eseguito la nona sinfonia, considerata il testamento spirituale di Mahler, a cui seguirà, in continuità numerica, ma non compositiva, la decima (incompiuta) sinfonia, che però appartiene pressoché completamente ad un altro secolo musicale, soprattutto in termini di costruzione melodica. Mahler chiude la sua produzione sinfonica, e forse scrive la parola fine al tempo delle sinfonie, con questa già modernissima composizione, un po’ come fece Beethoven che, con l’introduzione delle voci soliste nella sua nona, spianò la strada ai compositori successivi (e, in particolare, proprio a Mahler) che ricorreranno spesso all’utilizzo di voci soliste.


L’interpretazione mahleriana del maestro Nelsons, anche in questa occasione, si è riconfermata una delle migliori, se non la migliore, che al mondo si possa oggi ascoltare. Il suo Mahler non è esasperato, né per drammaticità, né per tensione verso la modernità (come è stato invece, solo per fare un esempio, quello di Kiril Petrenko, la cui settima sinfonia, proposta un paio di anni or sono sempre a Salisburgo, fu difficilissima da ascoltare), ma è stupendamente disteso in una evoluzione melodica che, nell’esaltare i momenti di più generoso sguardo rivolto alla musica ottocentesca, secolo in cui Mahler poggia solidamente uno dei suoi piedi, non perde nulla della sua proiezione novecentesca, che si esprime nella discontinuità dei temi e nella tormentata sovrapposizione verticale dei livelli sonori. La nona sinfonia del maestro Nelson, così come il suo Mahler in generale, si è imposto quindi per una profondità interpretativa rara.


Il primo movimento è stato eseguito con magistrale precisione di tempi e di sonorità. Ogni nota non è mai stata lasciata al caso, con l’esito che il maestro Nelsons è riuscito a trasmettere tutte quelle sensazioni di amore e di morte che la partitura contiene e che tanto piacevano ad Alban Berg, che le esaltò anche in una lettera indirizzata alla moglie. Questo primo movimento dovrebbe infatti rappresentare il “saluto ai cari” (la moglie e la figlia - almeno secondo le annotazioni del maestro Willem Mengelberg, amico di Mahler). In esso prevale un tema che viene ripetuto e modificato più volte, ma che trova sempre il filo conduttore nella sua destrutturazione melodica, segno di tormento e di fatica, tranne che nell’assolo finale del primo violino in cui la melodia si compone in un finale silenzio. Questo movimento ha avuto nel maestro Nelsons e nella magnifica orchestra viennese, la sua realizzazione più alta, toccante e mozzafiato.


Nel secondo movimento, idealizzazione di una danza macabra, hanno spiccato l’utilizzo di un tempo comodo e di dinamiche movimentate, ma mai esagerate. Magistrale è stata la prestazione dei corni, che hanno scandito note e trilli con assoluta precisione. Eccellente e scherzosa è stata anche tutta la sezione dei fiati.


Il terzo movimento, che esprime la consapevolezza dell’inutilità del lavoro e degli sforzi che vengono cancellati dalla morte, è stato realizzato con un’ammirevole precisione ritmica e con un’eccellente interpretazione, soprattutto della più tranquilla parte centrale. Entusiasmante è stato il finale, reso dal maestro Nelson con estrema meticolosità ritmica, senza però ricorrere ad alcuna esagerazione nella scelta dei tempi e senza lesinare con il volume sonoro, che non di rado è stato sontuoso.   


Sino a che è arrivato, con il quarto movimento, il momento per l’anima di Mahler di cantare il suo lungo addio. Il maestro Nelson ha scelto di farlo vivere, staccando un tempo lento, così da poter esaltare la profondità del suono e far emerge, in ogni nota e in ogni arcata, lo sforzo e la fatica di Mahler. L’intero movimento è stato pervaso da una sensazione di immanente angoscia e una sublime tensione orchestrale, che è culminata in una scala discendente affidata agli archi, che poi si è aperta anche ai corni. Il finale, affidato agli archi, è culminato in un morendo orchestrale, che si è protratto fino a dissolversi del tutto, senza però  far intendere dove vi fosse la fine.


La direzione appassionata e coinvolgente del maestro Andris Nelsons è stata quindi la protagonista indiscussa di questo straordinario concerto, che riposiziona ancora una volta il direttore d’orchestra lettone come uno dei migliori mahleriani di questo tempo, uno dei pochi in grado di ricordare un poco, in termini di profondità esecutiva, quello inarrivabile dell’immenso Leonard Bernstein nella performance viennese della sua senilità artistica.


I Wiener Philharmoniker si sono riconfermati un’orchestra superlativa: non solo la precisione tecnica, ma anche per il suono vellutato degli archi e quello potente degli ottoni e dei fiati. Una nota di merito va al primo violino dei Wiener Rainer Honeck, che ha stupendamente eseguito i suoi difficili assoli.


Il concerto è quindi terminato con i calorosissimi e meritati applausi del pubblico.

 

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