Salisburgo, Großes Festspielhaus. 30 Agosto 2024.
Non può certamente definirsi felice la nuova e attesissima produzione salisburghese de Les Contes d’Hoffmann (I Racconti di Hoffmann) di Jaques Offenbach. Alle critiche, che hanno seguito la prima rappresentazione, per cui le cronache riferiscono anche di un’aperta contestazione da parte del pubblico, si è aggiunto, in occasione dell’ultima recita programmata per il 30 agosto u.s. (a cui si riferisce la presente recensione), l‘inatteso forfait, per asserite “…ragioni personali…”, del tenore Benjamin Bernheim, vale a dire di colui che oggi è indiscutibilmente tra i più qualificati interpreti del ruolo di Hoffmann nel panorama artistico mondiale. La direzione del Festival, la mattina stessa della rappresentazione, con una laconica e-mail, ne ha infatti annunciato la sostituzione con il tenore Léo Vermot-Desroches, esordiente nel ruolo e poco più che esordiente in carriera. E così, nel breve volgere di qualche ora, gli spettatori (o almeno quelli tra di essi che avevano scelto di andare a teatro non per assistere ad una rappresentazione basta che sia) si sono visti privati, nel contesto di uno spettacolo che già si annunciava ricco di criticità, della “punta di diamante” e dalla maggiore attrazione artistica della serata. Cose che capitano, si penserà. E’ vero. Ma dovrebbe essere parimenti vero che, quando queste cose capitano, la Direzione Artistica proponga, in sostituzione della star annunciata, ma indisponibile, un artista di pari blasone, così da offrire allo spettatore, che ha pagato lautamente un biglietto (nel caso specifico, oltre 400 euro) e che magari si è anche sobbarcato il disagio e i costi di una trasferta, la possibilità di assistere ad uno spettacolo che, nonostante l’imprevisto, conserva immutata, almeno sulla carta, la sua attrattività. E’ una semplice regola di serietà, a cui in questa occasione la Direzione del Festival, che in varie altre occasioni ha meritato elogi, ha mancato.
Se agli spettatori non è andata particolarmente bene, non miglior sorte è toccata a Jacques Offenbach. E ciò, soprattutto, per (de)merito della regista francese Mariame Clement, la quale, a quasi un anno esatto dall’infelicissima esperienza registica del suo collega Christoph Marthaler nel Falstaff della scorsa edizione, ha messo in scena una rivisitazione della medesima idea creativa, incorrendo in un analogo negativo esito. La regia che la Clement ha realizzato, all’unisono con la costumista e scenografa Julia Hansen, è stata semplicemente brutta, non altrimenti definibile: una regia che, anzi, è parsa lavorare volutamente sul concetto di brutto, di squallido e, non di rado, anche di volgare, ma che, soprattutto, è sembrata essere studiata apposta per non far capire l’opera allo spettatore e per depotenziare, se non per azzerare, la componente emozionale dell’opera stessa e delle sue pagine più belle, più sognanti e più poetiche. Ne è stata una prova plastica la celeberrima barcarola, la quale, eseguita in un’ambientazione deprimente, con un Hoffman dormiente e strafatto, appoggiato ad una carrello della spesa come un clochard, è stata ridotta all’insignificanza. E così è stato pure quando lo stesso tema è stato ripreso, poco dopo, con un Hoffmann impegnato in un virtuale match di pugilato su un ring tracciato da incappucciati, attinti direttamente dalla Casa di Carta. Per non tacere di Olympia, che diventa Wonder Woman, mentre gira una scena con tanto di pistole laser, ufo e ballerini; o di Antonia, che è sana come un pesce ed è un’attrice che sta girando un film, di cui non si capisce nulla e di cui non si riesce a seguire la storia e nemmeno si riesce a capire se alla fine muore o no; o di Giulietta, che ha solo i fianchi larghi, come Dapertutto senza motivo. Rimane francamente non spiegabile perché direttori artistici e direttori d’orchestra avallino simili improbabili operazioni, le quali, oltre a nuocere all’opera, nemmeno propongono interessanti elementi di innovazione e di sperimentazione (basta por mente, per capire il senso positivo della parola innovazione, alla bellissima ed inventiva regia di Damiano Micheletto nei Racconti andati recentemente in scena a Venezia e che saranno ripresi a Londra nei mesi di novembre e dicembre prossimi).
Se il talento della sig.ra Clement non si è percepito, non ha in verità brillato nemmeno quello del maestro Marc Minkowski, da cui vi era da attendersi assai di meglio, non fosse altro perché egli è un profondo conoscitore dell’opera. La sua direzione è parsa poco frizzante, non di rado cupa e malinconica e spesso tendente al monotono. La scelta di non variare con frequenza, né i tempi, né le dinamiche, non ha contribuito alla creazione di un’orchestrazione leggera e “francese”. Anche in tal caso, la barcarola, eseguita velocemente e con dinamiche ineleganti (con un flauto decisamente dominante), ne è stata il banco di prova. L’esito complessivo della direzione non è andata quindi oltre il discreto. La parte più interessante della componente direttoriale è stata l’adozione di una versione dell’opera, con un finale più lungo.
Anche i Wiener Philharmoniker, che certamente non sono “un’orchestrina”, sotto la guida del maestro Minkowski non hanno particolarmente brillato. Ottima è stata la prestazione degli archi, ma l’insieme è risultato alquanto pesante e, non di rado, quasi chiassoso.
Anche in palcoscenico non sono mancati i problemi.
Il tenore Léo Vermot-Desroches, chiamato a sostituire il tenore titolare, ha dato vita ad una prestazione artistica generosa, connotata da un pregevole impegno, non mancando di mettere in mostra, a tratti, anche un fraseggio ed una dizione ottimi, oltre che una vocalità appropriata per il ruolo, ben incentrata sul registro centrale. Alla lunga, però, il suo Hoffmann è risultato un poco monocorde e non adeguatamente sfumato. La giovanile baldanza vocale, a cui non sono comunque mancati alcuni acuti fibrosi e molto forzati, gli ha in ogni caso permesso di arrivare a fine recita senza troppi intoppi. Vermot-Desroches, pur costretto a muoversi in una regia senza né capo né coda, ha inoltre mostrato di trovarsi a perfetto agio e di conoscere molto bene i movimenti scenici, al punto da indurre qualche sospetto sul fatto che il suo esordio sia davvero stato così improvvisato come dichiarato dalla Direzione del Festival.
Al suo fianco, la soprano Kathryn Lewek ha impersonato i tre amori di Hoffmann (Olympia, Antonia e Giulietta), oltre che la diva Stella. Questa scelta, di affidare ad un’unica cantante tutti i ruoli protagonistici femminili, che già sulla carta è rischiosa se non si dispone di una soprano di grandissima caratura come Joan Sutherland o Edita Gruberova, è risultata non pienamente felice. L’esito è stato quello che ci si poteva ragionevolmente aspettare: tre ruoli cantati bene, ma tutti poco caratterizzati e molto poco personali. Come Olympia la Lewek ha avuto modo di sfoggiare agilità nel registro acuto, anche se la sua Chanson è mancata di “meccanicità” ritmica; come Antonia è invece apparsa molto opaca e come Giulietta non è interpretativamente pervenuta.
Non ha faticato quindi ad emergere, in tale contesto, Christian Van Horn, il migliore del cast, che ha interpretato Lindorf, Coppélius, Dr Miracle e Dapertutto. Il baritono americano dispone di una presenza scenica molto carismatica, che utilizza benissimo a servizio dei suoi personaggi. Ha sfoggiato anche una vocalità corretta e una bella voce scura, potente e intonata. L’interpretazione è stata sempre buona e spesso accurata, sebbene sia stata sensibilmente penalizzata dalla regia, che non lo ha aiutato con i giusti punti di riferimento, e da una direzione, che non sempre è riuscita a farlo risaltare appieno.
Eccellente, e forse la migliore del comparto femminile, è stata anche la prestazione della soprano Kate Lindsey nei panni della Musa e di Nicklausse. La soprano, non solo ha fornito interpretazioni curatissime, ma le ha anche supportate con una bella voce calda e controllata splendidamente, a tratti grave e profonda, a tratti leggera (come nella barcarola).
Una menzione speciale merita anche Marc Mauillon (Andrès / Cochenille / Frantz / Pitichinaccio), che ha cantato la sua aria del terzo atto con spensieratezza e con una voce adatta al ruolo.
Hanno completano in modo soddisfacente il cast Géraldine Chauvet (Voce di Madre), Michael Laurenz (Spalanzani), Jérôme Varnier (Crespel / Master Luther), Philippe-Nicolas Martin (Hermann / Peter Schlémil) Paco Garcia (Nathanaël) e Yevheniy Kapitula (Wilhelm).
Ottima è stata infine la prestazione del coro dello Staatsoper di Vienna.
Al termine, comunque, vi sono stati applausi entusiastici per tutti: di quelli che oggi, spesso, non si negano a nessuno, nemmeno a fronte di uno spettacolo molto più che deludente.