La Dama di Picche • Uryupin
- Lorenzo Giovati
- 19 apr
- Tempo di lettura: 6 min
Torino, Teatro Regio. 13 Aprile 2025.
Dopo il successo di Evgenij Onegin, Tchaikovsky tornò a Puškin per trarre ispirazione da un altro dei suoi racconti più celebri, La dama di picche. Composta nel 1890 su libretto del fratello Modest, l'opera fu scritta in pochi mesi durante un soggiorno a Firenze e andò in scena per la prima volta al Mariinskij di San Pietroburgo. A differenza dell’Onegin, qui il tono si fa più cupo e febbrile, con una tensione drammatica che rispecchia le inquietudini interiori del compositore negli ultimi anni della sua vita. La trama ruota attorno a German, un giovane ufficiale che, ossessionato dal desiderio di scoprire un segreto vincente legato a tre carte misteriose, seduce Lisa, la nipote della Contessa depositaria dell’enigma. Il delirio di German conduce a una catena di eventi tragici, che culminano nel suicidio di Lisa e nella follia del protagonista.
Nella messinscena proposta dal Teatro Regio di Torino, la grande carica emotiva insita nella vicenda è stata portata alla luce dalla regia di Sam Brown, realizzata in coproduzione con la Deutsche Oper di Berlino e ripresa per l’occasione da Sebastian Häupler. Un allestimento visivamente curato e tecnicamente raffinato, in cui però l’impatto complessivo si è rivelato alterno. Accanto a soluzioni sceniche efficaci, capaci di restituire l’atmosfera tesa e visionaria dell’opera, non sono mancati momenti in cui la regia ha indugiato su espedienti di dubbio gusto. È il caso, ad esempio, della prima scena del secondo atto, ambientata in una sala da ballo dall’apparenza elegante ma animata da danzatori e danzatrici coinvolti in interazioni esplicitamente allusive, con gestualità sessualmente marcate che sono parse gratuite e poco funzionali allo sviluppo drammaturgico. Similmente, la scena dell’incontro tra German e la Contessa ha visto un uso delle fisicità che non solo si discosta dalla logica narrativa dell’opera, ma finisce per indebolirne la forza drammatica: le effusioni tra i due, infatti, non contribuiscono né a chiarire le tensioni sottese, né ad aggiungere nuovi livelli interpretativi. Particolarmente controversa è risultata anche la scelta registica di rappresentare la Contessa come figura desiderante e sorprendentemente poco turbata dalla presenza di German nella sua stanza, tanto da offrirgli da bere prima di manifestare un qualsiasi segno di spavento. Una lettura che ha reso poco plausibile la sua morte per infarto alla vista della pistola, snaturando uno dei momenti cruciali dell’opera. Tuttavia, a controbilanciare questi limiti, va riconosciuta una grande efficacia nella costruzione visiva dello spettacolo. Le scene, delineate con geometrie nette e rese dinamiche da un sapiente uso di strisce a led che ne sottolineavano i contorni, hanno contribuito a creare un clima inquieto, perfettamente coerente con l’ossessività che percorre la partitura. Particolarmente suggestiva, in tal senso, è stata la scena del fiume, dove Lisa attende invano l’arrivo di German: un momento di forte impatto visivo ed emotivo, costruito con misura e senso del tragico. In definitiva, pur con alcune scelte opinabili che hanno rischiato talvolta di impoverire la tensione narrativa, l’impianto registico ha saputo offrire una visione personale e riconoscibile, capace di valorizzare l’intensità psicologica e l’ambiguità perturbante dell’opera.
La riuscita dello spettacolo è da attribuirsi anche a un cast vocale di livello decisamente elevato, che ha saputo restituire con efficacia, tanto l’intensità drammatica, quanto le sfumature psicologiche dei personaggi.
A spiccare su tutti è stato Mikhail Pirogov nel ruolo di German: tenore dal timbro chiaro e luminoso, dotato di un eccellente squillo, ha costruito un personaggio profondamente coinvolto, rendendo con sensibilità il tormento interiore che lo consuma. Se da un lato la sua lettura ha privilegiato l’aspetto più umano e inquieto del protagonista, dall’altro lato ha lasciato leggermente in ombra la componente ossessiva legata alla brama di conoscere il segreto delle “tre carte”, centrale nella trama. Dal punto di vista vocale, la sua prova è stata solidissima: intonazioni precise, buona proiezione e una presenza scenica sicura hanno contribuito a un’interpretazione complessivamente convincente.
Al suo fianco, Zarina Abaeva ha dato vita a una Liza intensa, riuscendo a comunicare con efficacia il dissidio interiore e la disperazione del personaggio. L’approccio interpretativo, sempre coerente e ricco di sfumature, è stato sorretto da una vocalità importante: la sua voce, timbrata e ben controllata, ha brillato per qualità e calore, nonostante una lieve defaillance nell’acuto della prima scena del terzo atto, che non ha comunque compromesso il risultato complessivo.
Eccellente la prova di Jennifer Larmore nei panni della Contessa, figura enigmatica e centrale nella drammaturgia dell’opera. Larmore ha messo in campo una voce tornita, ampia e piena, valorizzata da un uso sapiente del fraseggio e da una raffinatissima eleganza espressiva. Ha saputo coniugare una sensualità velata e ambigua con una nobile dignità, mantenendo un forte carisma scenico anche nei momenti in cui la regia le imponeva scelte non sempre favorevoli.
Elchin Azizov ha dominato la scena nel ruolo del Conte Tomskij, sin dalla complessa aria del primo atto, affrontata con energia travolgente e un fascino misterioso perfettamente calibrato. I due acuti finali, eseguiti con precisione e potenza, hanno coronato una performance di grande impatto. Anche nell’aria conclusiva si è distinto per intensità e padronanza tecnica, sostenuto da una voce ampia e timbricamente pregevole, che ha reso la sua prova eccellente.
Vladimir Stoyanov ha offerto un’interpretazione raffinata e misurata del Principe Eleckij, personaggio decisamente complicato, ma qui restituito con spessore e partecipazione. La sua linea di canto, sempre curata, ha brillato per omogeneità ed eleganza, mentre il fraseggio, scolpito con attenzione, ha confermato la qualità di un artista che sa coniugare classe e profondità.Nel ruolo di Polina, Deniz Uzun si è fatta apprezzare per la bellezza del timbro e per la compattezza della sua vocalità, densa e corposa. La sua interpretazione è risultata ben delineata, capace di trasmettere sia l’autonomia psicologica del personaggio sia una velata malinconia, resa con naturalezza e precisione.
Efficaci anche le prove di Alexey Dolgov e Vladimir Sazdovski nei ruoli di Cekalinskij e Surin: entrambi hanno offerto interpretazioni incisive, sostenute da voci ben proiettate e da una presenza scenica vivace, in linea con lo spirito dei loro personaggi.
Ben calibrato e solido l’apporto dei comprimari, tra cui si sono distinti Ksenia Chubunova (la Governante), Joseph Dahdah (caplickij e il Maestro di cerimonie), Viktor Shevchenko (Narumov) e Irina Bogdanova (Maša), tutti capaci di contribuire efficacemente alla coerenza drammaturgica dell’insieme, senza mai cadere nella routine.
In ultimo, l’accuratissima e tesa direzione del maestro Valentin Uryupin, trentanovenne russo, vincitore nel 2017 della competizione internazionale Georg Solti di Francoforte. Il maestro ha scelto un approccio interpretativo teso e coinvolgente, in cui le linee orchestrali sono state scolpite con intelligenza e sensibilità, senza mai cedere al compiacimento. La sua lettura ha saputo valorizzare la tensione psicologica che attraversa l’intera partitura, mantenendo costantemente viva la pulsazione drammatica, anche nei momenti più lirici e sospesi. Estremamente curato il fraseggio, articolato con precisione e sempre coerente con il tessuto emotivo della scena. Gli attacchi si sono distinti per nettezza e pulizia, così come le dinamiche, sapientemente dosate, hanno permesso di esaltare le ombre e le ambiguità dell’orchestrazione di Tchaikovsky. Uryupin ha inoltre dimostrato una notevole capacità di tenere saldamente unito il palcoscenico con la buca, sostenendo i cantanti senza mai coprirli, ma nemmeno assecondandoli passivamente: anzi, la sua direzione si è distinta per una capacità di dialogo continuo tra voce e orchestra, mantenendo alta la tensione drammatica. Una direzione di grande spessore, consapevole e matura, che ha saputo restituire, tanto la raffinatezza formale della partitura, quanto la sua inquietudine sotterranea, senza rinunciare a slanci poetici e a momenti di autentica potenza emotiva, come nel riuscitissimo finale.
Eccellente è stata anche la prestazione delle masse del Teatro Regio di Torino. L’orchestra ha brillato per un bel suono compatto e potente, il coro si è distinto per un raffinato velluto e per un’ottima dimestichezza con le barriere linguistiche (grazie alla preparazione del maestro Ulisse Trabacchin) e in ultimo il superlativo Coro di voci bianche, preparato dal maestro Claudio Fenoglio. I bambini, non solo sono stati scenicamente partecipi e attenti, ma soprattutto particolarmente preparati nella dizione della lingua russa.
In conclusione, La dama di picche al Teatro Regio ha offerto uno spettacolo compatto e ben costruito, in cui tutti gli elementi scenici e musicali hanno concorso a rendere con chiarezza la tensione tragica dell’opera. Un progetto teatrale solido, che ha saputo restituire la forza narrativa e simbolica del capolavoro tchaikovskiano.