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Lorenzo Giovati

La Clemenza di Tito • Capuano

Salisburgo, Haus für Mozart. 8 Agosto 2024.

 

Si è aperto ormai da qualche settimana il festival di musica per eccellenza, ovvero quello che da ormai oltre 100 anni richiama a Salisburgo appassionati di ogni nazione, all’insegna di oltre un mese di grande musica. Quest’anno, nella sezione operistica del festival, compaiono due titoli considerati “minori”, l’uno di Prokofiev, l’altro di Weinberg, un titolo di Offenbach (I Racconti di Hoffmann) e due titoli mozartiani (Don Giovanni e La Clemenza di Tito). Grande ed inspiegabile assente del festival è invece l’immenso Giacomo Puccini, nonostante ne ricorrano i cento anni dalla morte, che in Italia (e non solo) vengono invece giustamente celebrati (Bruckner, di cui cadono i duecento anni dalla nascita, sarà però ricordato con due concerti, diretti, rispettivamente, da Riccardo Muti e da Kirill Petrenko). Così come era avvenuto nel 2022 per Il Barbiere di Siviglia, il titolo operistico già proposto nel festival di Pentecoste è stato riportato in scena, con la medesima compagnia di canto, le medesime masse corali e orchestrali e il medesimo direttore. Quest’anno, siccome il festival di Pentecoste, diretto artisticamente dalla soprano italiana Cecilia Bartoli, era interamente (o quasi) dedicato a Mozart, l’opera proposta è stata tratta dal repertorio del genio salisburghese, da cui è stato saggiamente attinto un titolo di raro ascolto, ma non per questo di minor pregio. La Clemenza di Tito vanta infatti un libretto composto da Pietro Metastasio, musiche sublimi (come Mozart riesce a regalare) e una trama nel complesso non eccessivamente complessa.


È balzata subito all’udito, fin dall’ouverture (realizzata su un tempo veloce), la direzione sapiente del maestro Gianluca Capuano. Eccellente è stato il lavoro di cesello che il direttore italiano ha svolto sulla partitura, riuscendo a renderla coinvolgente, grazie ad un suono sempre ricco di carattere, ma nel contempo anche stilisticamente appropriato. La sua meticolosa lettura ha permesso ad ogni dettaglio di emergere, esaltato da una scelta ritmica molto libera, che ha proposto, ora tempi dilatatissimi, ora tempi incalzanti e serrati, ma comunque sempre estremamente precisi. Impressionante è stato poi il lavoro che il maestro Capuano ha effettuato sul suono orchestrale, a tratti sommesso, a tratti luminoso e a tratti addirittura stridulo (facendo suonare gli archi “col legno”). Eccellente è stata anche la prestazione de Les Musiciens du Prince - Monaco, un complesso oggi difficilmente eguagliabile in questo repertorio. Non da meno è stato il meraviglioso coro “Il Canto di Orfeo”, preparato dal maestro Jacopo Facchini.


Così come alle orecchie si è imposta la direzione, agli occhi si è proposta la regia di Robert Carsen, non però di pari qualità. L’azione è stata ambientata in una sala parlamentare italiana, che, stando al libretto del Metastasio dovrebbe essere il Campidoglio. La sala, arredata da alcune scrivanie mobili (che a tratti erano divise e a tratti erano unite, in modo da creare un unico grande tavolo), viene utilizzata, sia come parlamento, sia come studio personale di Tito, il quale è raffigurato come il Presidente di questa non meglio definita assemblea. Caso (o forse non proprio il caso) ha voluto che Vitellia (cospiratrice contro l’imperatore), avesse delle fattezze, sia nei tratti somatici, sia nei capelli, sia nel modo di vestire, molto simili a quelle dell’attuale Presidente del Consiglio Italiano. Ciò ha trovato conferma anche dall’intervista, rilasciata da Cecilia Bartoli per il Corriere della Sera del 31 luglio scorso. Questa scelta, al di là degli orientamenti politici, che non assumono uno specifico rilievo, non è apparsa, né di buon gusto, né opportuna, né infine necessitata da una chiara esigenza artistica. Analoga cifra si è ritrovata proposta anche nel finale (non di Mozart, ma di Carsen), nel quale Tito viene comunque ucciso dai sicari di Vitellia, gli stessi che alla fine del primo atto avevano fatto irruzione in scena, realizzando una chiara evocazione dei fatti del Capitol Hill, che con l’opera mozartiana c’entrano meno di niente. Anche l’idea registica di uccidere Tito (oltre che di minacciare Sesto, Servilia e Annio) è risultata, non solo un poco scontata, ma anche e soprattutto decontestualizzata. Perché Servilia avrebbe dovuto minacciare Sesto? Non è dato saperlo. Bisognerebbe necessariamente chiederlo al sig. Carsen. La regia, che le cronache della prima del 17 maggio riportano come contestata dal pubblico, è stata infine anche un poco rumorosa (soprattutto nel finale del primo atto). Tuttavia, e questa è la nota positiva, non ha intralciato l’azione scenica e musicale.


La componente vocale è stata invece, e per fortuna, più pregevole.

È piacevolmente emerso, come è giusto che fosse in un’opera in cui anche i personaggi maschili vengono impersonati da donne, l’unico vero protagonista maschile (interpretato da un uomo), ovvero il Tito Vespasiano del tenore Daniel Behle. Behle, che già aveva dimostrato un’apprezzabile dimestichezza con il repertorio mozartiano in occasione dell’ultimo Ratto dal Serraglio scaligero, si è presentato in una splendida forma vocale, che gli ha consentito di delineare un personaggio interpretativamente perfetto e vocalmente molto curato. Behle è riuscito a far emergere perfettamente le asperità sentimentali di Tito nei confronti di Sesto, sfoggiando anche un eccellente fraseggio. Ha affrontato le sue arie con palpabile sicurezza, facendosi molto apprezzare dal pubblico, che gli ha meritatamente tributato, non solo numerosi applausi a scena aperta, ma anche un’ovazione ai saluti finali.


Nel comparto femminile ha svettato la diva ormai italo-salisburghese Cecilia Bartoli, da dodici anni direttrice artistica del Festival di Pentecoste e immancabile protagonista del festival. La Bartoli ha delineato un Sesto eccellente, offrendone un’interpretazione a tratti preoccupata e a tratti delicata, grazie ad un fraseggio, ça va sans dire, eccellente. Sebbene la Bartoli non abbia mai disposto di un mezzo vocale estremamente potente, conserva però immutata la sua capacità di offrire un canto agile, lieve ed esteso nei registri, nonché l’abilità di passare con naturalezza tecnica e con perfetta intonazione dalle note estremamente gravi a quelle più acute. Eccellente è stata anche la sua presenza scenica. Indubbiamente, una grande professionista.


Nel complesso buona è stata anche la prestazione di Alexandra Marcellier nei panni della cospiratrice Vitellia. La soprano ha mostrato di possedere una voce potente, ma anche ottimamente controllata nell’intonazione. Non sempre è riuscita appieno, però, a variare l’interpretazione, con l’esito di delineare un personaggio che, alla lunga, ha leggermente peccato di monotonia. Il timbro, molto franco, che si adatta perfettamente alle esigenze del personaggio, è riuscito a raggiungere con agilità il registro acuto, mentre quello grave è stato gestito con maggiori difficoltà. Buono è stato anche il suo fraseggio, soprattutto nelle arie, mentre si è percepita qualche lieve incertezza nella dizione nei recitativi.


Anna Tetruashvili ha impersonato splendidamente il ruolo di Annio, forgiato con un’eccellente vocalità e con una notevolissima definizione interpretativa. Sublime è stata la scena con Servilia, sia per i meriti orchestrali, sia per i meriti vocali, che ha offerto un momento di estremo coinvolgimento emotivo.


Di pari alto livello è stata anche la Servilia di Mélissa Petit, eccellente per fraseggio, dizione e intonazione.


Rimane infine il Publio di Ildebrando D’Arcangelo, che si è riconfermato il grande artista di sempre. Sebbene il ruolo assuma un’importanza tutto sommato marginale, il basso italiano ha dimostrato, una volta di più, di trovarsi perfettamente a suo agio in questo repertorio, sfoggiando una bella voce, controllata e scura, che utilizza con sapienza a servizio di un’interpretazione curata.


L’esito di uno spettacolo complessivamente riuscito è stato trionfale per tutti gli artisti, orchestra inclusa.


 

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