La Bohème • Bisatti
- Lorenzo Giovati
- 7 apr
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Parma, Teatro Regio. 4 Aprile 2025.
Dopo un Barbiere di Siviglia di successo, ma non particolarmente ricco di autentico pregio, il Teatro Regio di Parma ha riaperto le sue porte al pubblico con un nuovo allestimento de La Bohème di Giacomo Puccini, unico titolo pucciniano di una stagione ormai prossima alla sua conclusione. Il criterio che ha guidato questa produzione è stato ispirato primariamente sulla scelta di affidare l’intera realizzazione a giovani interpreti, dalla regia alle voci, fino alla direzione d’orchestra, sia per valorizzarne i pregi artistici, sia, forse, per investire sulla speranza che, un cast anagraficamente omogeneo e caratterizzato dal minimo comune dell’età verde, potesse maggiormente attirare in sala un pubblico di coetanei. Se così era, se cioè questi erano gli intendimenti, essi si sono però realizzati solo in minima parte. E ciò, sia perché non è provato che i giovani siano attratti da altri giovani, essendo forse più vero che essi sono interessati alla qualità della proposta artistica che viene loro rivolta, non tanto alla giovane età di chi la interpreta. Risultato ne è stato una messinscena complessivamente faticosa, non di rado approssimativa e sempre emotivamente estranea. Ed è questo un tema di non poco conto, su cui il Teatro Regio di Parma, al pari peraltro di molti altri teatri soprattutto di tradizione, dovrà interrogarsi, non potendosi accontentare, se non al prezzo di allontanare progressivamente il patrimonio di passione che ne ha scritto la storia, di avere il sold out o di ricevere gli applausi generosi da parte di un pubblico che, a Parma come altrove, tende sempre meno a interpretare (in modo, s’intende, pienamente legittimo) la propria presenza ad una prima d’opera in termini di aspettativa artistica, ma, sempre più, in termini di partecipazione ad un momento di vita sociale. Non a caso di questo spartiacque dei tempi che cambiano, se ne è avuto un segno anche l’altra sera, proprio in Teatro, quando una persona dal loggione non è riuscita a trattenere un “povero Puccini!”, che, non solo ha offerto una sintesi plastica degli umori di una parte, pur diversamente silente, degli appassionati, ma che è stata anche un momento di rivendicazione di una vitalità che un teatro non deve perdere e smettere di ascoltare.
Lo spettacolo, fin dal primo accordo, non è partito col piede giusto: il furioso attacco degli archi, con cui la recita si è aperta, ha evidenziato un percepibile scollamento e un leggero ritardo tra gli orchestrali, errore che, va detto, si era già manifestato durante la prova antegenerale. Una partenza infelice, dunque, che ha purtroppo dato il “buongiorno” all’intera serata. Sul podio, il ventiquattrenne maestro Riccardo Bisatti si è fatto notare per una personalità direttoriale più marcata e più interessante rispetto a quella di altri suoi coetanei, anche magari più avanti in carriera di lui, ma ancora, ovviamente, in via di definizione. Ciononostante, quello che a prima vista poteva apparire come un contributo di energia e di giovanile vitalità, si è poi tradotto in un dinamismo eccessivo, che pochissimo ha concesso a momenti di respiro, melodico ed emozionale, e che è andato a discapito di un adeguato controllo delle masse sonore. Il volume orchestrale, spesso spinto ben oltre la misura opportuna, ha finito non di rado con il coprire le voci, costringendo i cantanti a un canto costantemente stentoreo, privo della libertà necessaria per provare a trovare sfumature, mezze voci, toni più intimi e più raccolti. La partitura di Bohème, tanto ricca di dettagli e di sentimento, avrebbe richiesto un approccio più accorto, una tavolozza di colori più sfumata, e soprattutto un senso del fraseggio meno perentorio e più variegato. Invece, molti episodi orchestrali, anche nei momenti maggiormente lirici, sono risultati appiattiti da un impeto sonoro che, a tratti, ha rasentato l’urgenza, in danno dell’intensità espressiva. Il maestro Bisatti, quindi, sembra indubbiamente possedere potenzialità interessanti, soprattutto per la sua palpabile personalità, ma a patto che esse, tramite un percorso di maturazione che per la sua gran parte appare ancora incompiuto, approdino all’esito di addolcire e di rendere assai più duttile la perentorietà dell’approccio.
La Filarmonica di Parma, per parte sua, ha offerto una prestazione alterna, non aiutata da una conduzione che forse ha anche scontato l’emozione dell’esordio. Gli archi, in particolare, hanno saputo creare un bel tessuto sonoro nelle sezioni più liriche, mostrando un timbro sufficientemente morbido e una buona espressività, pur senza riuscire a mantenere sempre la coesione d’insieme. Meno brillanti i tromboni, talvolta poco rifiniti nel suono, mentre le trombe si sono distinte per un’incisiva e precisa esecuzione dell’incipit del secondo quadro.
Sul palcoscenico, come già accennato, le cose sono andate di conseguenza, riflettendo inevitabilmente le scelte e i limiti della concertazione. L’unico interprete ad aver mostrato, non solo un’adeguata vocalità, ma anche un’intenzione interpretativa coerente con il personaggio, è stato il Rodolfo di Atalla Ayan, subentrato a John Osborn (alla sua seconda defezione consecutiva al Teatro Regio di Parma). La voce di Ayan si è rivelata gradevole, abbastanza ben educata e dotata di un timbro naturalmente adatto al ruolo, mentre il suo fraseggio, a parte alcuni tratti in cui l’approssimazione è emersa, è stato complessivamente appropriato, anche se mai emozionante. Ayan ha offerto del personaggio di Rodolfo una lettura complessivamente dignitosa e in genere rispettosa della scrittura pucciniana. La sua interpretazione è stata però penalizzata, come si è appena rilevato, da una certa carenza nella ricerca del sentimento e nell’approfondimento delle sfumature emotive che caratterizzano le frasi più intime e sospese della parte. Un limite che non può essere attribuito unicamente al cantante, poiché i tempi spesso rigidi e la mancanza di respiro imposta dalla direzione non ne hanno certamente agevolato il lavoro di scavo espressivo.
Roberta Mantegna, nei panni di Mimì, è stata complessivamente apprezzabile, ma non ha convinto del tutto. Pur disponendo di una voce interessante per timbro e per proiezione, la sua interpretazione è apparsa, sin dall’esordio, priva della morbidezza, del fascino e della naturalezza che sono necessarie per costruire un personaggio realmente tenero, fragile e interiorizzato. L’emissione è sembrata spesso rigida e la linea vocale poco duttile, imbrigliata in un fraseggio un poco meccanico, quasi scolastico, che raramente si è aperto a vere intenzioni drammatiche. La cantante è sembrata essere concentrata, più sulla correttezza dell’esecuzione vocale, che sulla costruzione espressiva del personaggio, con il risultato che molte frasi, anche quelle più emblematiche e più sospese, sono state pronunciate in modo poco accurato, finendo per essere svuotate della loro forza emotiva. Un momento clou è stato il “Sì, mi chiamano Mimì”, in cui la mancanza di poesia e la scarsa varietà agogica hanno lasciato il pubblico spiazzato: alla conclusione dell’aria, non è infatti scattato l’applauso e si creato un attimo di silenzio imbarazzato, che ha reso palpabile il disorientamento in sala. Altro momento poco positivamente significativo, ma questa volta addebitabile più al tenore Ayan, è stato l’attacco di “O soave fanciulla”, in cui l’accento scelto, adatto forse per cantare “Recondita armonia”, non ha restituito nulla del magico momento di esplicitazione di un sentimento che poi, nella sua intensità, trasfigurerà, come la regola della vita impone, dalla gioia estrema al dolore profondo.
Maria Novella Malfatti, subentrata a Juliana Grigoryan nel ruolo di Musetta, ha complessivamente offerto una buona prova, senza particolari slanci, ma senza nemmeno evidenti cadute. La vocalità è apparsa adeguata e ben intonata, anche nelle zone acute. La presenza scenica, pur volenterosa, ed a tratti forse eccessivamente debordante, non è riuscita a restituire appieno la leggerezza del personaggio, complice anche una regia poco collaborativa, che l’ha spesso costretta in movimenti di cui sarebbe fatto a meno, nell'ottica di renderla una moderna "influencer". Ne è comunque risultata una Musetta tutto sommato ben sostenuta.
Affiatato e ben equilibrato è stato poi il trio degli amici bohémiens: Schaunard, Marcello e Colline, interpretati rispettivamente da Roberto Lorenzi, Alessandro Luongo e Aleksei Kulagin. Roberto Lorenzi ha offerto una linea di canto ordinata e ben controllata, unita a una presenza scenica naturale, che gli ha consentito di disegnare uno Schaunard istrionico ed efficace. Alessandro Luongo ha messo in mostra una voce dal timbro pieno e piacevole, ben proiettata, ed ha garantito una resa interpretativa solida. Degno di nota è stato anche Aleksei Kulagin, che si è guadagnato un meritato applauso a scena aperta per una “Vecchia zimarra senti” intonata con precisione e con la giusta partecipazione emotiva. Efficaci sono stati anche i Benoit/Alcindoro di Eugenio Maria Degiacomi e il Parpignol di Francesco Congiu. Buoni i comprimari Sergente dei Doganieri, Doganiere e Venditore ambulante interpretati da Angelo Lodetti, Matteo Mazzoli e Matteo Monni.
Come sempre si salva in ogni occasione per precisione, per coesione e per volume il magnifico Coro del Teatro Regio di Parma, preparato dal maestro Martino Faggiani, riconfermandosi un'eccellenza assoluta. Ottimo anche il coro delle voci bianche del Teatro Regio di Parma preparato da Massimo Fiocchi Malaspina.
Alterno è stato invece il risultato della regia di Marialuisa Bafunno, progetto vincitore del bando del circuito OperaLombardia rivolto a team under 35, con l’intento di promuovere valori di accessibilità e sostenibilità ambientale. Un intento nobile, certo, ma risolto in maniera piuttosto semplicistica: emblematica, in tal senso, è l’entrata di Colline con un cartello recante la scritta “Non c’è più tempo”, chiaro riferimento al cambiamento climatico in stile Greta Thunberg, privo però di un vero legame con la drammaturgia pucciniana. Alla narrazione dell’opera, la Bafunno ha sovrapposto un’idea registica che si è rivelata più concettuale, che efficace: una grande scatola, simbolica, ma anche reale, posta al centro della scena, che avrebbe dovuto contenere la “memoria” di un Rodolfo ormai anziano, presente in scena come testimone silenzioso del proprio passato. L’espediente del “Rodolfo anziano” non è nuovo, ed è stato riproposto in modo piuttosto prevedibile, senza offrire veri elementi di lettura o di approfondimento emotivo. Non a caso, una storica voce del loggione ha definito il personaggio, con spietata efficacia, “il vecchio rimbambito”. La soffitta dei bohémien è stata concepita secondo un’estetica che si potrebbe definire “semi-zeffirelliana”, con il classico lucernario da cui filtra la luce, mal gestita, in realtà, durante l’intero spettacolo. Al centro della scena, oltre a un divano in pelle (che ritornerà nella squallida morte di Mimì), spiccava inspiegabilmente una scala da cimitero, di quelle utilizzate per raggiungere i loculi più alti. Il Caffè Momus, del tutto privato di riferimenti parigini o bohémien, è stato ambientato in una scena grigia e spoglia, ravvivata solo dalla presenza di Musetta, ridotta a una figura pop e sradicata, fatta ballare in stile influencer durante la marcia finale, momento tanto incongruo, quanto poco esaltante. Nel complesso, ne è scaturita una regia priva di Parigi e di tempo, incapace di evocare un contesto, una poetica o un’identità. L’allestimento si è rivelato, più un lavoro di arredamento scenico, che una regia vera e propria, scolastico nel disegno e povero di idee interessanti. Alcune scelte, come la morte di Mimì su un divano in pelle, circondata da decori post-festa e da un fuoco che si accende sulle ultime battute, hanno assai poco convinto, mentre altre, come l’assenza di un preciso contesto visivo e storico, hanno semplicemente svuotato la vicenda di qualsiasi verità drammaturgica.
Una regia non memorabile, di uno spettacolo parimenti non memorabile.