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Lorenzo Giovati

Das Rheingold • Young

Milano, Teatro alla Scala. 3 Novembre 2024.

 

Da sempre le opere di Wagner hanno rappresentato un impegno produttivo eccezionale per qualsiasi teatro del mondo, non solo per la lunghezza e la complessità delle partiture, ma anche per la grande quantità di risorse umane e tecniche che sono richieste per la loro realizzazione: cantanti di alto livello, un’orchestra di dimensioni imponenti, coristi preparati, tecnici e macchinisti altamente qualificati. In Italia, sono pochi i teatri che possono affrontare con successo questo sforzo monumentale e certamente il Teatro alla Scala di Milano è tra i pochi in grado di garantirlo con un certo prestigio. Il Der Ring des Nibelungen, uno dei cicli più imponenti e famosi dell’opera lirica, mancava dal palcoscenico della Scala dai tempi della reggenza di Daniel Barenboim, ovvero da circa dieci anni. Con il suo ritorno, il capolavoro wagneriano ha ripreso vita a Milano, senza mai perdere quella forza trascinante e quell’elemento di novità che da sempre lo contraddistinguono.


L'inizio di questa impresa titanica è segnato dal prologo, il Das Rheingold, la più breve delle quattro opere, resa difficile dalla mancanza di pause, che costringono i macchinisti ad eseguire i cambi scena in pochissimo tempo e in religioso silenzio. Sicuramente il nuovo Ring del Teatro alla Scala non è iniziato nel migliore dei modi, con la rinuncia del direttore designato Christian Thielemann che, per ragioni di salute, ha rinunciato all'intero ciclo, ritenendolo un impegno unitario. Il Teatro alla Scala ha però trovato nella affermatissima Simone Young (e in Alexander Soddy) una sostituta ideale.


Simone Young ha dimostrato una padronanza straordinaria della complessità wagneriana, rivelando, non solo una tecnica direttoriale impeccabile, ma anche un’affinità profonda con l’anima della partitura, che conosce perfettamente e che ha già presentato (e presenterà nel 2025) a Bayreuth. La sua conoscenza del libretto e della musica le ha permesso di entrare in grande sintonia con l’opera, tanto da dare indicazioni anche ai cantanti sulle dinamiche e sulle sfumature interpretative. Fin dalle prime battute di questo Rheingold, la sua capacità di costruire e mantenere una tensione costante è apparsa evidente: ogni gesto esprimeva un controllo totale dell'orchestra, mantenendo un equilibrio impeccabile tra i colori orchestrali e guidando con delicatezza ogni strato sonoro, dai bassi profondi degli ottoni, ai suoni leggeri degli archi. La sua direzione ha colpito per l’intelligenza musicale, grazie alla quale la Young ha saputo cesellare le sonorità con una precisione rimarchevole, facendo risaltare la stratificazione dei temi wagneriani senza mai sovraccaricare l’insieme. La sua interpretazione è andata oltre la pura potenza sonora (anche se, quando richiesto, è riuscita ad ottenere dall'orchestra grande forza), esplorando invece le dinamiche più intime della partitura e rendendo ogni frase musicale significativa e carica di suggestioni. Momenti come il crescendo iniziale e le introduzioni dei Leitmotiv sono stati resi con una tale cura che l’intero universo mitico wagneriano sembrava emergere davanti al pubblico, come se ogni nota non evocasse solo un suono, ma un’immagine. Con una visione tanto attenta quanto raffinata, la Young ha regalato al pubblico un'interpretazione perfettamente strutturata ed emozionalmente molto coinvolgente.


La Young ha anche saputo valorizzare l'orchestra della Scala, rispettando e sfruttando appieno le sue qualità timbriche. Eccellente è stata quindi la prestazione dell'orchestra, in ogni sezione, anche se si sono verificati sporadici e minimi problemi d'intonazione di alcuni dei tantissimi corni. Un altro momento leggermente incerto è stato l'interlude della terza scena, in cui le incudini (posizionate fuori scena) non si sono sincronizzate perfettamente con l'orchestra fin dall'inizio. Nel complesso però, grazie ad una impeccabile sezione dei fiati e degli archi, e considerata soprattutto la difficoltà della partitura, la prestazione è stata eccellente.


Il fronte vocale è stato ottimo.

Su tutti ha primeggiato il Wotan austero e nobile di Michael Volle, un wagneriano espertissimo, che mostra ancora, al netto di un inevitabile affaticamento vocale dovuto al progredire degli anni, un grande carisma interpretativo e una presenza scenica imponente e magnetica. Nonostante la regia abbia avuto la tendenza di raffigurare il personaggio sovrappeso e affaticato nella camminata, la regalità del personaggio è stata trasmessa con una potente espressività del viso e con una bella voce scura, mantenuta bene nel registro intermedio, un po' meno in quello più acuto dove la tendenza ad un vibrato evidente si è fatta sentire maggiormente.


Al suo fianco ha svettato anche l'eccellente Norbert Ernst, nei panni di un Loge subdolo e scaltro, reso con attenta e limpida dizione, a supporto di un mezzo di buona intonazione ed assolutamente perfetto per il ruolo.


Olafur Sigurdarson ha impersonato il ruolo di Alberich con appropriata malvagità e avidità, senza mai eccedere in caricature, più d'effetto, che di sostanza. Nonostante qualche nota raggiunta con un po' di fatica, la prestazione è stata ottima grazie ad una presenza scenica eccellente e ad una encomiabile capacità di enfatizzare correttamente le frasi, conferendo al personaggio eccellente credibilità.


Ottimo è stato anche il Donner di Andrè Schuen, che merita una menzione particolare per la bella voce scura e intonata, che ha contribuito alla creazione molto convincente della scena conclusiva dell'incantesimo.


I due giganti Fasolt e Fafner, interpretati dagli ottimi e atletici (poiché hanno recitato e cantato su un paio di trampoli) Jongmin Park e Ain Anger sono stati caratterizzati alla perfezione: il primo grazie ad una voce rotonda e un'interpretazione curata ed emotiva, il secondo grazie alla sua voce stentorea e un'interpretazione ruvida che si è adattata perfettamente al personaggio.


Molto bravo è stato anche Wolfgang Ablinger-Sperrhacke nei panni di Mime, reso con eccellente e spontanea interpretazione, in aggiunta ad vocalità adatta al ruolo.


Lo stesso si può dire del Froh di Siyabonga Maqungo, reso con particolare dolcezza nella componente interpretativa e vocalmente eccellente.


Di eccellente presenza è stata anche la Freia di Olga Bezsmertna, che ha fatto emergere la sofferenza e la preoccupazione del personaggio, tramite una voce intonata e limpida.


Brava anche la Fricka di Okka Von Der Damerau, soprattutto nella relazione con gli altri personaggi.


Molto d'effetto per presenza scenica e vocale è stata anche l'accurata Erda di Christa Mayer.


Bravissime, sia vocalmente, sia scenicamente sono state le tre Figlie del Reno (Woglinde, Wellgunde e Flosshilde), impersonate da Andrea Carroll, Svetlina Stoyanova e Virginie Verrez. Di particolare pregio è stato il loro intervento, soprattutto per una splendida coesione e intesa tra le tre, che ha contribuito alla creazione di una tessitura sonora dinamica, tale da rievocare un'ambientazione fluviale.


Resta infine la regia di David McVicar, a cui è stata affidata la monumentale realizzazione dell'intera tetralogia. La scelta di McVicar di attenersi a una rappresentazione visivamente incantevole e rispettosa del contesto mitico wagneriano, senza però cedere alle stravaganze interpretative, si rivela una soluzione equilibrata e, allo stesso tempo, affascinante. Consapevole della tradizione scenografica che ha visto spesso registi collocare l'azione in luoghi decisamente improbabili, McVicar ha deciso di concentrarsi su un'estetica splendida, mastodontica e di effetto, ma allo stesso tempo estremamente funzionale all'azione scenica, che non ha mai peccato di personalità e di originalità visiva. Un esempio particolarmente riuscito di questa impostazione è l’idea di rappresentare “l’oro del Reno” non come un oggetto statico, ma come una figura vivente: un ballerino mascherato che indossa un finto volto d’oro, un elemento che Alberich strappa via con violenza. Il Nibelheim, inoltre, è stato rappresentato in modo straordinario: un imponente teschio sovrasta la scena, simbolo del mondo oscuro e oppressivo dei Nibelunghi, e funge da cornice perfetta per gli effetti dell’elmo magico, che permette trasformazioni e giochi di luce tanto inquietanti quanto suggestivi. Questo elemento scenico trasmette in modo immediato l’atmosfera di oppressione e di servitù che domina il regno di Alberich, creando un impatto visivo che rende giustizia al clima sinistro della partitura. La cura meticolosa di McVicar si è manifestata anche nell’uso sapiente delle luci e dei costumi, elementi che hanno conferito ulteriore profondità alla narrazione. I costumi, sontuosi e dettagliati, rievocano un'epoca fuori dal tempo, sospesa tra mito e storia. La visione di McVicar, dunque, pur mantenendo un rispetto reverente per il testo wagneriano, dimostra un’originalità che incanta senza mai disorientare, restituendo al pubblico un’esperienza indimenticabile.


Alla fine dello spettacolo, il successo è arrivato per tutti, soprattutto per Simone Young che lascierà il podio ad Alexander Soddy per le tre recite successive. Lo spettacolo è stato complessivamente bellissimo, lasciando nel pubblico un senso di soddisfazione, ma soprattutto di curiosità per il prossimo appuntamento: Die Walkure.

 


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